Il suo nome era Vakhtang Enukidze. È morto sabato 18 gennaio. Era recluso nel CPR di Gradisca d’Isonzo e il CPR l’ha ucciso.
IL CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) di Gradisca è tornato in funzione il 16 dicembre 2019. Era stato aperto una prima volta nel 2006 (come CPT, poi CIE) e chiuso nel 2013 grazie alle rivolte dei reclusi che l’avevano ripetutamente reso inagibile. Qui trova la morte per trauma cranico, dopo otto mesi di coma, Majid El Kodra.
Ha riaperto con più gabbie, più sbarre, più telecamere e una rete tesa sopra la struttura per impedire ai reclusi di salire sui tetti.
L’appalto per la gestione è stato vinto dalla cooperativa sociale EDECO di Padova, dopo che le prime quattro imprese classificate erano state estromesse dalla graduatoria finale per mancanza di adeguata documentazione.
EDECO, che si presenta sul proprio sito come “operante sulla base dei valori di accoglienza, carità e crescita individuale”, ha gestito negli anni diversi progetti legati all’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo, tra SPRAR, accoglienza diffusa, Centri di Accoglienza Straordinaria e per Minori non accompagnati. Le persone che sono state all’interno dei centri gestiti da questa onlus, riferiscono di condizioni di vita inumane: sovraffollamento, nessun tipo di assistenza né attività, mancanza di supporto legale, cibo schifoso ecc. Inoltre EDECO è attualmente sotto processo per turbativa d’asta, frode nelle pubbliche forniture, corruzione, abuso d’ufficio, rivelazione del segreto d’ufficio e falso. La prima udienza, che si sarebbe dovuta svolgere il 14 gennaio, è stato rinviata al 3 marzo.
Particolarmente significativa, e assurta più volte agli onori della cronaca, la gestione del CAS di Cona (VE). La struttura di Cona consisteva in una serie di tende all’interno di una base missilistica NATO dismessa. Le brandine erano ammassate a causa del sovraffollamento e la mensa non prevedeva neanche la possibilità di sedersi per consumare i pasti. In questo centro – che secondo l’Asl aveva 450 posti – si arrivano ad ammassare 1700 persone, con 17 operatori (dei 43 previsti dal bando). Il 2 gennaio 2017, Sandrine Bakayoko, una donna ivoriana di 25 anni, muore nei bagni del centro: i richiedenti asilo accusano i gestori del campo di aver chiamato i soccorsi in ritardo e danno il via a una rivolta che dura molte ore. Nell’autunno 2017, da Cona parte la “Marcia per la dignità”, una grande manifestazione collettiva con la quale le persone costrette a vivere nell’hub denunciano le condizioni di vita a Cona e riescono a ottenere una riduzione del sovraffollamento.[1]
Il CPR di Gradisca apre nel segno delle rivolte
I lavori alla struttura non sono nemmeno ultimati: un’intera ala è ancora inutilizzabile e la capienza è al momento più che dimezzata rispetto ai 150 posti previsti. Ma l’urgenza deriva dal dilagare delle rivolte negli altri centri: le prime persone rinchiuse arrivano infatti dalle sezioni rese inagibili dei CPR di Torino e Bari Palese.
Anche a Gradisca immediatamente iniziano le proteste e le rivolte, le fughe tentate e riuscite, gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio.
La repressione è pesante: pestaggi, isolamento ferreo (i reclusi raccontano che il cibo viene passato sotto le porte delle celle e non è permesso radunarsi in spazi esterni collettivamente), violenze psicologiche e fisiche fanno di questo posto un inferno gestito in modo del tutto arbitrario. All’interno della struttura stazionano – oltre ai dipendenti EDECO – Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, sembrerebbe in costante tenuta antisommossa. Ricordiamo che in teoria, essendo i CPR centri di detenzione amministrativa, l’ingresso delle forze dell’ordine dovrebbe essere subordinato ad una richiesta contingente dell’ente gestore, analogamente ad un bar, un teatro o una casa privata. La realtà chiaramente è ben diversa.
Non ci interessa ricostruire gli ultimi giorni di vita di Vakhtang nei minimi dettagli. Sappiamo quanto ci hanno testimoniato i suoi compagni di reclusione: che è morto dopo essere stato picchiato da almeno otto poliziotti, che hanno infierito su di lui a colpi di manganello e gli sono saliti sul collo e sulla schiena con tutto il peso. Sappiamo che poi è stato trasferito in carcere (con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale), dopo un passaggio al pronto soccorso, per poi essere di nuovo portato nel CPR dopo due giorni e due notti. Sappiamo che aveva accettato il rimpatrio in Georgia ma è stato ucciso prima.
Fin da subito la Questura e la Prefettura di Gorizia tentano di mettere a tacere la vicenda: una prima velina, ripresa da molti media locali, parla di “rissa” fra gli stessi reclusi come causa certa della morte, scaricando su di loro tutta la colpa e scagionando la polizia da qualsiasi responsabilità. Dall’interno però arrivano le smentite: i presenti tra i reclusi raccontano una storia ben diversa e la loro voce, per il tramite di solidali all’esterno, riesce a filtrare ed aprire le prime crepe. Pochi giorni dopo le autorità cambiano parzialmente versione, attribuendo la morte a un “malore”. Attualmente “si attendono gli esiti dell’autopsia”.
Vengono pian piano alla luce fatti ben noti ma sempre sottaciuti, per esempio che nei CPR i reclusi vengano riempiti di ansiolitici e antidolorifici, sia su esplicita richiesta per affrontare le condizioni di vita terribili, sia nascosti nel cibo, per necessità di controllo. Di tutti questi farmaci non c’è quasi traccia nella documentazione ufficiale, che dovrebbe essere invece rigorosa.
Nel frattempo i testimoni, coloro che hanno avuto la possibilità e il coraggio di raccontare all’esterno quanto hanno visto, vengono fatti progressivamente sparire. Nella notte tra lunedì e martedì tre di loro sono stati caricati su un aereo e deportati in Egitto: erano i compagni di cella di Vakhtang e volevano essere ascoltati per dire cosa era veramente avvenuto quel giorno nella loro cella. Venerdì 24 gennaio è stato deportato un altro testimone: era in Italia da 24 anni, praticamente da una vita.
Il Procuratore di Gorizia si è affrettato a dire che “i testimoni sono stati ascoltati prima del rimpatrio” e che “questi rimpatri erano stati programmati da tempo”. Ricordiamo però che chi è chiamato a testimoniare in un processo ha diritto a un permesso di soggiorno per motivi giudiziari, per cui queste dichiarazioni suonano false e pretestuose. È inoltre quantomeno curioso che vengano rimpatriati proprio quei soggetti tra cui, stando alle dichiarazioni questurili, si troverebbe il potenziale assassino. È evidente che la verità è altrove.
Le reazioni locali
L’apertura del CPR di Gradisca avviene dopo mesi di propaganda, da parte dei partiti che governo la regione Friuli Venezia Giulia e dall’eco dei partiti di opposizione, sulla “fragilità” della frontiera nord-orientale, che separa l’Italia dalla Slovenia. Una frontiera che invece è militarizzata ed attraversata quotidianamente da pattuglie ufficiali, paramilitari, zelanti privati cittadini che cercano e segnalano le persone che tentano di attraversarla. In questi boschi, a due passi dalla città di Trieste, nella notte di Capodanno è morto Ahmad, caduto da un dirupo del Carso sotto gli occhi della moglie e di un amico.
È quindi facile per la classe politica locale costruire un immaginario fondato sulla paura dell’invasione, cui il CPR contribuirebbe a porre un argine. È in quest’ottica che il Governatore leghista Fedriga negli ultimi mesi ha più volte dichiarato la disponibilità ad aprire altri centri in regione, “in cambio di tagli all’accoglienza diffusa”. È chiara la natura propagandistica di tali affermazioni, che volutamente mescolano questioni e strutture di natura chiaramente diversa tra loro. Tra le reazioni della classe politica, spiccano per particolare ipocrisia quelle del PD locale, con il responsabile regionale Shaurli e la deputata Serracchiani in prima fila nel tentativo di scaricare le proprie evidenti responsabilità sull’amministrazione regionale, che non ha voce in capitolo, o sui Decreti sicurezza, che si sono limitati a raddoppiare i tempi di permanenza nei CPR istituiti nel 2017 dalla Minniti-Orlando.
Fuoco ai CPR!
La mobilitazione per Vakhtang inizia appena appresa la notizia: sabato 18 gennaio un gruppo di antirazziste ed antirazzisti è già sotto le mura per urlare la propria solidarietà ai reclusi e ricevere notizie, mentre domenica 19 un corteo, convocato in seguito agli accadimenti, si ferma per due ore sotto il centro. Dopo diversi scambi all’improvviso si fa silenzio: la polizia si sta preparando a picchiare, dicono da dentro. Un materasso prende fuoco e il fumo sale fin oltre il tetto.
Il giorno dopo i reclusi riferiscono che la polizia ha picchiato e sequestrato i telefoni di chi aveva cercato di comunicare con l’esterno. Nessuna voce deve passare.
Nel frattempo iniziano le intimidazioni anche nei confronti dei solidali all’esterno. I sindacati di polizia minacciano querele per diffamazione, mentre la Questura di Gorizia fa pervenire a quattro attivisti un foglio di via dal territorio del Comune di Gradisca.
Da lunedì 27 gennaio a domenica 2 febbraio da parte dell’Assemblea No Cpr – No Frontiere FVG è stata lanciata una settimana di mobilitazione per la chiusura di tutti i CPR, per la liberazione di tutte le persone richiuse e per Vakhtang.
In tutti i territori, anche dove non vi sono CPR, è necessario che di CPR si parli, affinché la mobilitazione possa crescere e questi centri possano chiudere per sempre.
I CPR sono lager di Stato, dove chi vi è rinchiuso è sottoposto a violenze fisiche e psicologiche ed all’arbitrio dei suoi guardiani, è circondato da sbarre e gabbie, senza possibilità di far nulla, in un’inerzia senza fine. Soprattutto però chi viene rinchiuso là dentro smette di essere una persona: diventa un numero, una non-persona. Perde ogni prerogativa personale, ogni diritto, anche il più basilare. Da dentro i reclusi ci chiedono di agire per la loro liberazione. È il momento di farlo.
Red TS
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NOTE
[1] https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2019/09/